10 APRILE 1899 – 29 APRILE 1945
Tullio Calcagno nacque a Terni il 10 aprile 1899; entrò in seminario a dieci anni e a soli venticinque, nel 1924, era già diventato sacerdote e parroco della cattedrale della sua città natale. Dal 1915 al 1918 lasciò il seminario perché venne arruolato nell’esercito durante la prima guerra mondiale, era uno dei gloriosi «ragazzi del ’99», gli artefici del miracolo del Piave. Si avvicinò al Fascismo in occasione della guerra in Etiopia, divenendo un grande sostenitore del regime italiano.
Nel 1940 si schiera con i favorevoli alla guerra e nel 1942 pubblica senza approvazione ecclesiastica “Guerra di Giustizia “, libro all’insegna della fedeltà alla Patria e all’alleato tedesco. Nel suo libro don Calcagno dava sfogo ai suoi violenti umori anticapitalisti ed anticomunisti. L’autorità ecclesiastica, comunque, non apprezza né il libro, né il fatto che don Calcagno lo abbia pubblicato senza richiedere il necessario «nihil obstat»; ad essere un po’ maliziosi, si può anche sospettare che quel libro crei qualche intralcio alla presa di distanza del Vaticano dal regime, che, nei primi mesi del 1943, diviene più evidente. Dal 1943, infatti, la linea di politica estera del Vaticano pende ormai nettamente a favore dello schieramento alleato e contro l’Asse Roma-Berlino; e, a quel punto, come si potrebbe tollerare che un prete scriva un libro per definire «santa» la guerra intrapresa da Mussolini? Don Calcagno viene convocato a Roma, davanti alla Congregazione del Santo Uffizio – vale a dire, l’Inquisizione – e, il 30 giugno 1943 , mentre l’invasione angloamericana della Sicilia è ormai alle porte, gli viene formalmente intimato di non occuparsi più di politica attiva e di restarsene buono, attendendo al proprio ministero spirituale.
I fatti del 25 luglio e, poi, dell’8 settembre, producono una scossa fortissima nell’animo di questo prete Fascista che stravede per Mussolini e che giudica la sua caduta, e l’armistizio firmato con gli Alleati, il risultato di oscure manovre del re e di un gruppo di uomini politici traditori della causa nazionale. Di lui si può dire quel che si vuole, ma non che fosse un opportunista o un timido; perché, proprio all’indomani della resa dell’ 8 settembre, ha inizio il capitolo più drammatico e concitato della sua vita – l’ultimo -, caratterizzato da una foga istintiva che non conosce astuzie né compromessi e che va dritta verso l’inevitabile “redde rationem”. Dopo l’8 settembre don Calcagno scrive una seria di veementi articoli per bollare di tradimento il re e Badoglio e per esortare alla riscossa contro gli Alleati, al fianco della Germania: e, questa volta, incorre nella sospensione “a divinis” da parte del vescovo di Cremona, Giovanni Cozzani. A Cremona egli si è recato dopo aver lasciato Terni, mettendosi subito in contatto con Roberto Farinacci, per il quale scrive su «Regime Fascista» e, poi, fonda un nuovo settimanale da lui stesso diretto, «Crociata Italica», finanziato dal ras della città, anche perché questi è nemico personale del vescovo. Il primo numero di «Crociata Italica» esce il 9 gennaio 1944 e, in brevissimo tempo, il giornale arriva a tirare la bellezza di oltre 100.000 copie: cifra sbalorditiva, specie considerati i tempi, e che lo pone in testa alla classifica della stampa più letta della Repubblica Sociale Italiana. Ogni numero, costituito da quattro pagine, è accompagnato dalle foto delle chiese e degli edifici distrutti dai bombardamenti aerei alleati, nonché da ironici commenti nei confronti di questi sedicenti liberatori che stanno riducendo in polvere un intero patrimonio artistico e civile. Lo stile degli articoli è aspro e intransigente; si invoca fedeltà a oltranza verso l’alleato germanico e si ribadisce che la causa fascista repubblicana è giusta e santa. Il 24 marzo 1945 la Santa Sede emette un decreto di scomunica che, insieme al precipitare della situazione militare, con il crollo repentino della Linea Gotica, segna la fine sia del settimanale, sia del movimento dei «crociati».
Don Calcagno si rifugia a Crema, dapprima in casa di amici, poi nel Seminario Comboniano, con il consenso del vescovo di quella città. Scoperto dai partigiani, è arrestato e tradotto a Milano, nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, la sera del 27 aprile. Sottoposto a processo sommario davanti a un sedicente Tribunale del popolo, il 29 è condannato a morte e fucilato aPiazzale Susa, insieme alla medaglia d’oro Carlo Borsani. Vale la pena di ricordare che non si è trattato di una rappresaglia isolata. Anche altri sacerdoti, specialmente cappellani militari, hanno subito un destino analogo, al momento della resa dei conti, a causa della loro fedeltà alla Repubblica Sociale. La tragica fine di don Calcagno è stata rievocata da Carlo Borsani jr. nel suo libro dedicato alla vicenda del padre, medaglia d’oro al valor militare, cieco e presidente dell’Associazione mutilati durante la Repubblica Sociale Italiana: “Carlo Borsani.Una vita per un sogno”.
“Quella sera un nuovo personaggio si aggiunge ai prigionieri: è don Tullio Calcagno che a Cremona, nella tipografia di Roberto Farinacci, stampava “Crociata Italica”, un settimanale attorno al quale riuniva quei sacerdoti che avevamo aderito al fascismo repubblicano.I detenuti, molti dei quali temono di venir condannati a morte, gli chiedono la benedizione e l’assoluzione, ma don Calcagno, che è stato spretato, allarga mestamente le braccia: “A me non spetta benedire, spetta soltanto a Dio”. Poi si siede accanto a Borsani: “Sei un cieco di guerra, una medaglia d’oro e sono sicuro che Schuster ti farà liberare”. Ma Borsani non possiede la stessa certezza e ha già accettato il suo destino. […]
Alle cinque del pomeriggio cinque individui, mai identificati esattamente, si presentano al palazzo di Giustizia con documenti del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) che li autorizzano a prelevare Borsani per trasferirlo “in altro luogo”. Invano il maggiore Bertòli si fa avanti offrendosi d’accompagnarlo. Alla sua proposta di poterlo fornire, almeno, di alcuni effetti personali, i partigiani rispondono che “dove va lui non servono”. Fanno salire il prigioniero su un camioncino e lo portano, assieme a don Tullio Calcagno, nelle scuole di viale Romagna, vicinissime a via Fucini, dove Borsani aveva consumato l’ultimo pasto coi propri cari. Qui è in azione un “tribunale del popolo” che sottopone a un processo sommario i due “criminali di guerra” e, tra le urla e gli insulti di una folla scatenata, li condanna a morte, Borsani e don Calcagno vengono caricati nuovamente sul camioncino, che percorre poche decine di metri di un largo viale dritto, alberato, per fermarsi in piazzale Susa.
“Fine corsa, scendere!”, urla una voce sarcastica. Borsani sente sulla schiena una mano che lo spinge verso il nulla e dei passi che s’allontanano, bacia la prima scarpetta della figlia Raffaella, che teneva stretta in pugno, alza gli occhi al sole e grida: “Viva l’Italia!”.
Don Tullio Calcagno fa in tempo a dargli l’assoluzione “in extremis”; poi, a sua volta, viene assassinato. Il suo cadavere viene trasportato, sopra una carretta della spazzatura, presso il campo dei fucilati del Musocco, e solo più tardi verrà traslato nel cimitero di Terni, la sua città natale.
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