Sermonti

Tra le variegate letture estive non universitarie ci siamo imbattuti in un libro di Rutilio Sermonti, “Valori Corporativi”. Rutilio Sermonti, novantatre anni compiuti ad agosto, è partito in guerra nel 1940 e non è più tornato. Come lo si definisce nella pubblicistica d’Area: Combattente della Repubblica Sociale, fondatore del Movimento Sociale Italiano, e figura di spessore dell’area nazional-rivoluzionaria, è ancora oggi un esempio di Fedeltà per tutti quei giovani “nati nel tempo sbagliato” che scelgono di portare avanti la rivolta contro il Mondo Moderno.

Autore di numerose altre opere, come il “Manuale del Militante Nazionale-Popolare” e “Una vita di Fede e testimonianza”, l’Autore si contraddistingue anzitutto per due caratteristiche: la sua vastissima cultura (che spazia dalla Storia al Diritto, dalla filosofia alla scienza) e nel contempo una capacità di esposizione sintetica e comprensibile al lettore che potrà fare dei suoi testi un formidabile strumento di battaglia metapolitica e culturale.

Il libro “Valori Corporativi” è stato edito nel 1984. Anzitutto, rispondiamo ad una prima obiezione che potrebbe esserci rivolta: che senso ha oggi parlare dell’attualità di un libro che ripropone un sistema attuato nel secolo scorso, nell’era dell’economia finanziaria e del turbo-capitalismo sfrenato, e venticinque anni dopo il crollo del “socialismo reale”? La risposta non è difficile: oggi ancora più di ieri, perchè proprio il fallimento del “socialismo reale” e i nefasti danni del Corporativismocapitalismo finanziario rendono attuale la ricerca di una Terza Via. Del resto, a proposito di guardare al passato, cosa pretenderebbero d’insegnare gli attuali dirigenti dell’economia, che hanno riesumato la già vetusta economia capitalistica ottocentesca nel suo aspetto estremo, quello finanziario (non per niente la loro scuola economica è detta appunto “neoclassica”)?
Ma arriviamo al libro. Parlare di Corporativismo oggi significa prima di tutto fare un riferimento diretto alla legislazione sociale culminata nella Carta del Lavoro del 1927 alla quale poi seguì tutta la strutturazione dell’economia in senso corporativo fino ad arrivare alla Socializzazione nel 1944.

Ma l’Autore non vuole certo ridurre il suo libro ad una mera esposizione storiografica, e nemmeno vuole ridurre l’idea corporativa ad una “teoria economica” applicata in un ventennio della Storia Italiana, bensì metterne in risalto gli aspetti ancora attualizzabili partendo dai principi politici e metapolitici sui quali l’Idea Corporativa si fonda.

Qui si rende necessaria una premessa storica, che l’Autore non omette: il capitalismo è anzitutto una forma mentis. Dopo il 1789, per la prima volta nella Storia, non è stato introdotto alcun sistema filosofico, bensì è stata imposta l’ideologia dell’economia e della materia come uniche direttrici della vita umana spogliata di qualunque riferimento spirituale superiore. Il Capitalismo come forma mentis quindi che vede l’uomo non come uomo integrale, ma lo riduce alla sola dimensione economica. E’ abbastanza sconfortante notare come il trionfo di questa visione abbia svalutato fortemente nell’attuale società lo studio delle materie umanistiche, perchè non “economicamente” concepibili (del resto: l’Arte o la Letteratura possono essere valutate in termini di costi – ricavi – profitti? Eppure sono campi di fondamentale importanza nella nostra Tradizione). Questo è uno dei tanti esempi che si può fare, se vogliamo restare in un ambito come quello universitario.

In secondo luogo, la critica agli effetti pratici del capitalismo: il metodo adottato è quello di analizzare gli effetti pratici per poi risalire alla questione di principio. Di fatto, e su questo punto è impossibile anche per l’autore non concordare con l’analisi fatta a suo tempo dalla scuola marxista, il sistema di produzione capitalista aveva generato una dicotomia tra un’oligarchia di detentori del capitale e una massa proletaria sempre più impoverita.

Questo effetto discende dall’adozione di un sistema economico finalizzato escluivamente al profitto: la forma mentis del capitalismo è quindi la subordinazione dell’uomo (visto solo come un lavoratore, cioè come individuo inserito esclusivamente nel sistema economico) alla logica economica del profitto. Sono fin troppo evidenti gli effetti negativi che una simile visione provoca nei fatti.
Oltre alla critica del capitalismo (sia come forma mentis che come sistema economico), Sermonti non risparmia certo di criticare quella che si è creduta per troppo tempo l’alternativa ma che poi non si è dimostrata altro che una seconda versione del capitalismo: la teoria economica socialista e comunista di Marx. E’ messa in evidenza la naturale continuità e affinità delle due teorie, entrambe basate sull’assolutizzazione dell’economia che viene eretta non più a strumento ma a fine. Se il capitalismo ha generato la lotta di classe e la dicotomia tra proprietari dei Capitali e massa di proletari, il comunismo marxista non fece altro che idolatrare la lotta di classe (vista non più come un problema, ma come un mezzo di lotta politica) , e di riprodurre la stessa dicotomia tra un’oligarchia di proprietari del Capitale e una massa proletaria. Che nella dicotomia tra oligarchia che detiene le risorse economiche e massa proletaria le risorse siano detenute dall’oligarchia finanziaria (come nell’Occidente turbocapitalista) o dai funzionari di Stato (come avveniva nel “paradiso” sovietico) poco cambia. Interessante è anche la parte nella quale l’Autore evidenzia come tratto comune dei due sistemi economici l’azione di distruzione dell’agricoltura, dove avviene la distruzione della piccola-media proprietà agricola in funzione della trasformazione dei contadini in operai agricoli.

L’Idea Corporativa si pone come Terza Via tra due facce della stessa medaglia.
Ma si pone come Terza Via innanzitutto per tre motivi principali: il Corporativismo, prima di essere un sistema economico, è un principio spirituale e politico, applicato all’economia. 

Anzitutto, il Corporativismo non è un prodotto dell’ideologia economicista e materialista : nel Corporativismo l’economia è vista come uno strumento da gestire per fini superiori, quale l’elevazione qualitativa di un popolo e il supremo interesse nazionale.

In secondo luogo il Corporativismo è un principio, non un’astratta teoria economica che si pretende dogmatica. Tra gli errori della Modernità c’è proprio quello di avere elevato una teoria economica a sistema infallibile. Sermonti fa l’esempio del regime socialista di Allende in Cile, che di fronte ai disastri conseguenti alle sue politiche economiche rispose che era necessario realizzare messianicamente “il socialismo”. Ma per restare all’attualità potremmo fare l’esempio di tutti i vari politici ed economisti che di fronte ai disastri delle politiche economiche europee improntate al finanziarismo, al liberismo ed al monetarismo non sanno rispondere altro che “dobbiamo salvare l’Euro”, “ce lo chiedono i mercati” e via discorrendo con il solito copione. Il principio corporativo è quindi applicabile nella sua essenzialità con i metodi più consoni alle circostanze storiche.

Il terzo motivo, altrettanto importante, è la collocazione del Corporativismo fuori dai canoni del capitalismo, con l’affermazione del primato della Politica sull’economia. 
Chi voglia oggi attualizzare l’idea corporativa deve anzitutto prendere atto del fallimento del sistema capitalista come sistema che ha elevato il profitto economico a fine esclusivo e non a mezzo. Un’economia al servizio dell’uomo, e non l’uomo al servizio dell’economia. Nella stessa filosofia greca l’uomo è definito un “animale politico” da Aristotele: la riduzione dell’individuo alla pura dimensione economico è un prodotto della Modernità assolutamente in contrasto con la vera Tradizione Europea, che è sempre stata comunitaria e che prima del 1789 non ha mai elevato l’economia a fattore esclusivo di determinazione della vita umana.

Fuori dai canoni ideologici, ma anche fuori dai canoni economici.

Fondamentale è il rigetto del dogma liberista, in favore di un recupero della Tradizione Romana nel ruolo dello Stato, in questo caso come organizzatore dell’economia produttiva. Economia produttiva e reale, non certo economia parassitaria e artificiale.
La Corporazione inserita nello Stato come garante della collaborazione tra Capitale e Lavoro nell’interesse supremo della Nazione. Compito dello Stato è quindi quello di organizzare l’economia tramite il raggruppamento dei ceti produttivi (comprensivi sia del Capitale che del Lavoro) in modo da garantire la produzione nell’interesse nazionale. Non una “proletarizzazione” dei lavoratori, ma una loro parificazione ai detentori del Capitale: il Lavoro e il Capitale come strumenti, non come fini. Il sistema corporativo quindi permette da l’inquadramento delle categorie produttive nello Stato tramite le Corporazioni, assegnando ad esse la funzione più importante: quella legislativa in materia di lavoro. Per fare un cenno storico, oltre alla ricca legislazione sociale d’epoca fascista, lo sviluppo industriale e le tenuta dell’Italia nella crisi del ’29 furono possibili proprio grazie a questa idea di collaborazione tra ceti produttivi ed all’inserimento del mondo del lavoro (in tutte le sue componenti) negli organi della legislazione.
L’intervento dello Stato in economia è nel Corporativismo visto come doveroso nel momento in cui alle dinamiche di mercato possano conseguire effetti negativi su larga scala e per favorire la produzione, senza però scadere in interventi che invece siano di ostacolo alla produzione stessa.
Potremmo fare un esempio pratico: nel Corporativismo lo Stato non interviene per rendere più difficile (tramite tasse e burocrazia) la vita di un’impresa, semmai interviene per difendere un settore produttivo dalla concorrenza sleale proveniente dall’estero. L’esatto contrario di accade oggi.

Importante è anche l’ultimo capitolo sulla Socializzazione delle Aziende realizzata durante la Repubblica Sociale Italiana mediante il quale nelle grandi industrie di definivano modalità di gestione in grado di coinvolgere non solo chi deteneva il capitale, ma anche chi prestava il lavoro. Sermonti però ammonisce che non si trattava di un “marxismo mascherata”, bensì di una maggiore responsabilizzazione dei lavoratori, che venivano così consapevolmente coinvolti nel processo produttivo.

Libri come “Valori Corporativi” sono la migliore risposta a quella storiografia (o forse fanta-storiografia) faziosa di stampo marxista che tende a sconfessare tutte le alternative non marxiste al capitalismo come “complotti” finanziati dalle classi dominanti per impedire le loro “rivoluzioni proletarie” (sarebbe da ricordare loro i brillanti esiti di queste “rivoluzioni” in paesi come la Cina, dove gli operai lavorano alla stregua degli schiavi). Una storiografia sconfessata anche da autorevolissimi storici come Renzo De Felice in Italia, l’americano Anthony James Gregor, o l’insospettabile laburista israeliano Zeev Sthernell.

Ed è anche evidente l’uso volutamente distorto del termine Corporazione, tanto usato da vari personaggi come sinonimo di lobbies. Costoro dimostrano un’ignoranza storica senza paragoni, dimenticando che le Corporazioni nascono fin dal Medioevo ed ebbero un ruolo fondamentale per l’affermazione di spazi di rappresentanza popolare e per favorire – trasformandosi da istituzioni economiche in istituzioni politiche – la partecipazione al governo della cosa pubblica degli strati più laboriosi e qualificati della popolazione. Non è un caso che il disprezzo verso la Corporazione provenga proprio da uomini notoriamente legati a banche d’affari e lobbies economiche sovranazionali, sostenitori delle “liberalizzazioni” il cui unico scopo è l’abbassamento salariale generalizzato che permetterebbe ai loro padroni di impadronirsi del sistema economico di intere nazioni (altro che “vantaggi per i consumatori”!).

Si tratta del libro giusto al momento giusto.

In un’epoca nella quale la politica si è fatta commissariare dal potere economico sovranazionale, dove l’economia reale produttiva ha ceduto il passo a quella finanziaria, e dove la proletarizzazione dei ceti medi espropriati sistematicamente delle proprie ricchezze in favore vuoi del parassitismo statale, vuoi dell’oligarchia economica sta riproducendo una dicotomia tra una minoranza che si arricchisce ed una massa sempre più impoverita, non vedo come si possa considerare un libro come quello di Sermonti. Un argomento non espressamente citato dal libro (per ragioni “anagrafiche”) è quello della moneta-debito in mano alle banche private e contrapposta alla moneta di Stato. Chiaramente, l’affermazione del primato della politica sull’economia implica direttamente anche quello della sovranità monetaria dello Stato. Ecco perchè un’analisi di principio, come quella corporativista, rimane sempre attuabile, a differenza dell’analisi marxista che rimane comunque limitata alla descrizione empirica di un sistema ancora industriale e non ancora finanziario.

Ed ecco perchè Sermonti lancia un urlo: la Sovranità dello Stato contro il dominio dell’alta finanza e del potere economico sovranazionale, la valorizzazione dell’economia produttiva, la giustizia sociale del lavoro come dovere sociale contro gli squilibri del turbocapitalismo del profitto elevato a divinità.
Non si tratta di nostalgismo (detto poi da chi ha riesumato teorie economiche già vetuste a fine Ottocento quest’accusa può solo fare ridere), semplicemente di dare risposte e linee guida a chi è ancora convinto che non debba essere lo spread a decidere del nostro futuro.
Insomma, per dirla come recitava una simpatica immagine su facebook:

meno agende Monti, più libri di Rutilio Sermonti!

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